IN ASCOLTO – note su Joan Saló e un’opera di Giorgio Morandi
Federico Mazzonelli
Materia, tempo e spazio sono gli elementi costitutivi del processo pittorico, inteso come attività concreta e reale di manipolazione e di trasformazione di sostanze informi ed effimere, quali la luce ed il colore, in immagini. Spesso mi sono chiesto qual è la reale dimensione delle immagini, la loro vera natura. Pur avendo trovato di volta in volta risposte differenti, l’interrogativo resta tutt’ora aperto, come se la materia in questione – l’immagine appunto – si manifestasse sempre sotto forma di suggestione, di miraggio, qualcosa di sfuggente e di ambiguo, come se la sua intima sostanza evaporasse ogni qual volta si provi a metterla a fuoco. Poi, leggendo un testo di Manlio Brusatin, mi annoto questa frase: “Le immagini come le ombre, per esistere hanno forse più bisogno della luce che del loro corpo.” Ecco -mi dico- forse l’arcano risiede qui, nell’epifania di segni, di forme, di macchie e di tratti, colorati o monocromi, che definiscono al medesimo tempo spazi astratti e profili di oggetti, ambienti, luoghi che emergono come per incanto dal vuoto che li circonda e che si fissano per sempre nella luce (o nell’ombra) di una superficie bidimensionale. E’un luogo sempre sospeso quello della pittura, uno spazio tanto reale e presente al nostro sguardo quanto effimero ed evanescente nella sua sensuale leggerezza, nella sua irriducibile immaterialità. Vi sono immagini capaci di assumere nello sguardo dell’osservatore una profondità assieme fisica e psicologica, in grado di riscattare, anche per un attimo, la caducità del mondo, dei suoi oggetti, delle sue proiezioni. Nonostante non vi sia nulla, a parte il ricorso all’elemento grafico e formale della linea e del tratto, che accomuni il lavoro di Joan Saló alla produzione incisoria di Giorgio Morandi, le opere che costituiscono l’ultimo ciclo del giovane artista spagnolo, ad una lettura più attenta, sembrano tuttavia trovare con la ricerca del grande pittore italiano affinità ben più sostanziali, rispetto a quelle che potrebbero sembrare sulle prime semplici operazioni citazioniste o didascaliche filiazioni visive. La ricerca di Salò è infatti rivolta fin dagli esordi ad un processo di attenta e sensibile trasfigurazione della materia, grazie ad un lento e paziente attraversamento della superficie della tela, la cui trama, ricalcata, ri-percorsa, ricreata cromaticamente e percettivamente, consente all’artista di rifondare, in ogni nuova opera, la propria azione. Saló, partendo dalla fisicità della tela, ne disegna lentamente la superficie come un campo tridimensionale di energie, di luce in espansione, un luogo assieme immaginario e reale, sospeso nel tempo eppure in divenire, astratto ma irriducibile. Se non si può certo parlare di una pittura austera, poiché anche quando si affidano a gradazioni monocrome di grigi-neri-bianchi i suoi dipinti sono sempre attraversati da un’ambigua tensione visiva, Salò sembra lavorare alla costruzione di spazi dai quali la confusione (del mondo) resta esclusa. Ogni suo lavoro nasce da una elaborazione e da una prassi specifica; eppure, ogni opera sembra annullare lo sforzo compiuto, come se la trama di linee, interruzioni e ripartenze, fosse emersa spontaneamente dal fondo della tela. Questo incessante movimento della linea, da’ vita ad un disegno intermittente che invece di saturare le superfici le lascia respirare, creando un velo di sfumature che cattura e rilascia la luce, un raffinatissimo disegno di chiari e scuri ch’è insieme oggetto e immagine, figura e fantasma, volume e trasparenza. Come le incisioni di Morandi (come la sua pittura) le opere di Saló, sembrano trovare nella reiterazione di un soggetto e nella riproposizione di un lento ed ostinato modus operandi, la possibilità di compiere un’esperienza conoscitiva la cui intensità si basa sulla dilatazione del fare e dell’osservare. In entrambi la costruzione dell’immagine non è mai frontale, ma presuppone sempre una lenta progressione per piani che si intersecano e si attraversano gli uni con gli altri, zone di luci che si alternano a zone d’ombra. Sono spazi, intervalli, interferenze che si aprono sul muro bianco, che nascono da un’intensa ma controllatissima deflagrazione tra bidimensionalità e tridimensionalità, tra una apparenza statica ed una lento ma inesorabile dinamismo, capace di muovere l’immagine dall’interno. In entrambi i lavori vi è anche una sorta di nostalgia per quella che potremmo definire una misura aurea, un sentimento di ordine rispetto al quale i due artisti rispondono secondo modalità apparentemente differenti ma in fondo affini, nella ricerca di strumenti o poetiche in grado di ricondurre la loro partita con il mondo ad una, per quanto effimera, ricomposizione del tutto in un frammento. Se l’opera di Saló si riallaccia infatti alla tradizione dell’astrattismo, o comunque ad un linguaggio genericamente aniconico, in quanto una delle principali caratteristiche dei suoi lavori è quella di esserci (presenze reali, entità che tengono in scacco la natura), quella di Morandi ricorre invece alla prospettiva non solo come forma simbolica, ma come strumento privilegiato che più che aggiungere ordine all’ordine, vuole piuttosto sopperire al disordine esterno, proprio con il ricorso ad un canone, ad una misura che tende costantemente all’ideale. Ed è interessante notare come le due ricerche, sicuramente lontane nel tempo e negli intenti poetici, si richiamino l’una con l’altra in una sorta di gioco di specchi tra differenze e identità. Se c’è un rigore pre-minimalista nell’opera di Morandi, una sorta di cifra astrattiva nel suo monologo iconografico basato sulla laboriosità manuale, sulla concentrazione e sul silenzio, in Saló la reiterazione del gesto diviene un atto quasi liturgico. Seppur rigorosamente astratta, estranea da ogni intento mimetico o rappresentativo, l’opera di Salò sembra attuarsi come un processo narrativo, portando ad una decantazione dello sguardo, ad una lenta immersione nella trama epidermica e insieme profonda della sua pittura. Al di là della loro esistenza qui ed ora, della distanza che li separa oltre lo spazio espositivo che si trovano a condividere, tanto negli oggetti di Morandi quanto nelle tessiture di Saló la sostanza iconica sembra fatta per non resistere. Si tratta di immagini che si fanno appena percepire, di immagini che potrebbero consumarsi nel momento stesso in cui le si sono interiorizzate, fatte proprie come si fa proprio un ricordo che affiora e poi torna a sparire nel flusso intermittente della memoria. “La pittura – scrive Merleau Ponty – non evoca niente, e meno che mai il tattile. Fa tutt’altra cosa, quasi il contrario: dona esistenza visibile a ciò che la visione profana crede invisibile, fa in modo che non ci occorra un senso muscolare per avere la voluminosità del mondo.
Questa visione divorante, si spinge al di là dei dati visuali, si apre su una trama dell’essere di cui i messaggi sensoriali sono solo le interpunzioni o le cesure, e che l’occhio abita, come l’uomo la sua casa”. Sia Morandi che Saló sembrano essersi messi in ascolto, là dove le loro linee, le loro forme, le loro immagini, ritagliano nel vuoto il profilo del mondo e del suo divenire; costante, silenzioso, in-finito ritorno dell’identico.