«Non voglio più parlare di pittura, non ne capisco niente. Di pittori neanche» affermava Guillaume Apollinaire nel 1907. In questa sede ha poca importanza conoscere le ragioni di tale sconforto, forse varrebbe la pena comprendere i motivi per cui sia sempre così problematico argomentare la pittura, ma ciò che ci preme rilevare qui è l’insistenza che facciamo dell’avverbio di negazione, quel “non” (declinabile in né, neanche, nemmeno, neppure) che ricorre spesso nei nostri discorsi, come se fosse l’unica terminologia in grado di soccorrerci di fronte all’inesplicabile. Il prefisso “non” è stato di primaria importanza per un artista come Ad Reinhardt, che nel tentativo di descrivere la propria ricerca era giunto al punto di definirla «non-non-arte, non-espressionista, non-imagista, non-surrealista, non-primitivista, non-fauvista, non-futurista, non-figurativa, non-obiettiva, non-soggettiva […]» eccetera, eccetera. L’inventario di Reinhardt continua molto a lungo, insistendo sul valore avversativo di ogni enunciazione.
Il problema dell’interpretazione si risolve in un discorso apofatico, in quanto di una determinata cosa si limita a dire ciò che non è. Scrive Jean Baudrillard: «si potrebbe considerare così una storia apofatica, che si svilupperebbe a partire dagli avvenimenti che non hanno avuto luogo […], un libro del quale avvicineremmo l’idea centrale a partire dalle questioni che non sono state poste, dalle risposte che non sono state date». Anche nel caso di Joan Saló Armengol dobbiamo sperare di avvicinarci il più possibile alla specificità delle sue opere per via negationis. Se si decidesse di affermare che le opere dell’artista spagnolo non sono disegni né sculture avremmo aggirato il problema principale. Viceversa, se ricorressimo a dichiarazioni perentorie – assicurando che le opere di Salò sono effettivamente delle pitture – saremmo obbligati a specificarne la tipologia. Dunque, sono figurative o astratte? Qualcuno propenderebbe per la seconda categoria, ma possiamo esser certi che la pittura pura debba necessariamente assoggettarsi all’arte aniconica? Il colore non può avere una forma propria che lo renda oggettivo? Quando ci avviciniamo troppo ai dipinti di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Gaetano Previati, Giovanni Segantini e Angelo Morbelli, non vediamo forse risultati analoghi alle opere di Saló?
Viste da vicino, la texture cromatica e la trama della tela diventano un tutt’uno, un ordito intricato, indissolubile, inespugnabile. Il colore di Saló ha una dimensione commisurata alla punta dei pennini, talmente sottili (e fitti) da diventare taglienti, come la lama che attraversa il bulbo oculare nel capolavoro di Buñuel. Sono fasci luminosi – una luce filtrata dall’iride, che la divide e la seleziona. Manca però in queste opere un centro focale, aspetto che costringe l’occhio a divagare, a perdersi e percuotere ogni centimetro della tela. Manca inoltre una forma riconoscibile, malgrado ciò non possiamo parlare di pittura informale, allo stesso tempo sarebbe inutile scomodare una generica astrazione. Altrettanto inane appare la decisione di suddividere le opere dell’artista in quadri policromi o monocromi; non è forse vero che nei secondi il nero tende a diverse gradazioni, conferendo loro una pluralità che contravviene alla monade? Nella maggior parte dei dipinti assistiamo a un rigore sagittale (rettilineo, non geometrico), come se l’assonanza tra “colore” e “colare” fosse stata presa alla lettera: la pittura gronda e la superficie trasuda di continuo. E questo è l’unico dato di fatto cui possiamo appellarci.
In conformità alla proposizione 4.1212 del Tractatus di Wittgenstein, che recita: «ciò che può essere mostrato non può essere detto», siamo costretti a capitolare, sconfitti dai limiti del linguaggio. Accettiamo allora che lo spazio illusionistico di Joan Saló Armengol non sia semplice pittura, lasciando allo spettatore l’ultima parola, giacché tutta la vera arte è interlocutoria.
Testo di Alberto Zacchetta